La mente e le probabilità #9 – Professione Psicologa

Silvia Tedone - Psicologa

Alcune osservazioni su come il ragionare per probabilità blocca menti e cultura

 
Probabilità: valutazione numerica attribuita al possibile verificarsi di un evento aleatorio, cioè casuale.
Carattere di ciò che è probabile; condizione di un fatto o di un evento che si ritiene possa accadere, o che, fra più fatti ed eventi possibili, appare come quello che più ragionevolmente ci si può attendere. 

Il mondo della probabilità è il mondo delle assicurazioni, del mercato finanziario, del meteo, delle scommesse, della mente statistica. Mi piace definirli “non luoghi”.  Sì, perché sono luoghi di non esistenza, di non vita. Per l’appunto, sono luoghi dai quali si osserva il mondo e si propongono affermazioni parziali che potrebbero verificarsi, ma in realtà nessuno ne ha la certezza totale. 

Allo stesso modo, per esempio, la mente del paranoico e dell’ipocondriaco viaggiano sulla probabilità, così come quella del giocatore d’azzardo: si sganciano dalla realtà invece che vivere il mondo che li circonda, così com’è.
D’altro canto però, nel nostro mondo tecnologico e super controllato, le “probabilità” ben calcolate salvano la vita a molte persone e ci permettono il progresso e l’avanzamento del nostro benessere.

Come ogni cosa, anche questo argomento ha i suoi pro e i suoi contro. I suoi vantaggi, ma anche le sue sclerotizzazioni.

Facciamo un passo alla volta e partiamo da ciò di cui disponiamo tutti. La nostra mente.

Cosa succede alla nostra mente con l’incontro con le probabilità?

La nostra mente non fa calcoli probabilistici. Ebbene no. Il calcolo delle probabilità non avviene naturalmente nel nostro cervello, come non avvengono naturalmente molte altre operazioni matematiche.
Insomma, il nostro cervello è incapace di fare calcoli statistici e su questo ci sono interessanti studi portati avanti negli anni ’70 del dott. Daniel Kaheman, psicologo israeliano e premio Nobel per l’economia.
Il signor Kaheman ha elencato gli errori cognitivi (definiti anche bias cognitivi) in cui tutti incappano, sia comuni mortali che ricercatori esperti. Ci si potrebbe domandare come questo sia possibile.

Come è possibile che anche il massimo esperto di statistica possa fare errori esattamente come chi non si è mai approcciato a tale disciplina?
La risposta è che i due soggetti hanno una cosa in comune: il cervelloSicuramente i contenuti del loro principale organo pensante saranno diversi, ma la struttura è la stessa. Il cervello è un organo, proprio come lo stomaco o i polmoni ed è di quella forma, di quel peso e di quella dimensione. 

Non possiamo chiedere al nostro avanzato computatore di prepararci la cena.
Allo stesso modo non possiamo chiedere al nostro cervello di fare qualcosa per cui non è portato: sarebbe come chiedere ai nostri polmoni di digerire il pasto, o alle nostre dita dei piedi di ascoltare la musica.

Il punto è che il cervello – datoci in dotazione dalla natura e dall’evoluzione – tende a seguire i canali dell’intuizione più che quelli della razionalità e questo dovrebbe – dovrebbe – essere anche molto facile da intuire (per l’appunto) visto che siamo anche dotati di un corpo che, per lo più, non è sotto il nostro controllo razionale.

Insomma, la nostra mente non è progettata per ragionare in termini statistici. 

Il ragionamento statistico è figlio della tecnica che, come sottolinea Umberto Galimberti, è lo sgambetto più grande che ci siamo auto inflitti. Dice Galimberti che il problema di aver raggiunto la tecnica è che abbiamo trasportato sul piano dell’oggettività tutta una serie di esperienze ed eventi che sono diventati esterni a noi, in cui noi non ci possiamo più ritrovare. 

Abbiamo spostato l’enorme problema di sentirci parte del tutto, prendendo il tutto e iniziando a calcolarlo.
Questo ci ha fatto l’enorme favore di mettere da parte tutta la fragilità della nostra condizione – negandola -, ottenendo sempre più velocemente da madre natura tutto quello di cui abbiamo bisogno, prima per necessità e poi per il wellfare, l’agio.

Rendendo oggettivabile persino la relazione verso l’altro, che oggi diamo in pasto ai logaritmi delle app di incontri, abbiamo spogliato il mondo dell’anima e ora chiediamo alle nostre menti di provare ad essere come le macchine: efficienti e instancabili, sempre accese e di avere uno sguardo oggettivo e razionale sul mondo, tollerando sempre meno le reazioni emotive e nascondendo sotto il tappeto (o sotto la nostra pelle) tutto ciò che ci può far sentire vulnerabili.

Come si fa quindi ai giorni nostri, col covid, a viaggiare sui piani dell’intuizione lasciando andare il tentativo continuo di controllo?

Come faccio se rischio di prendermi il covid praticamente facendo qualsiasi cosa?

Vediamo meglio come funziona. 

Se il nostro cervello ritiene probabile che accada qualcosa, non solo scattano i dubbi e il pensiero cerca di trovare una soluzione su una cosa che non potrà mai sapere in anticipo – cioè il futuro – ma la risposta più sicura diventa improvvisamente quella di smettere di fare qualsiasi cosa. Se sto a casa, sicuramente, il covid non me lo prendo. Se annullo la stagione di spettacoli, sicuramente non rischio nulla. Se faccio chiudere tutti i locali, sicuramente i casi diminuiranno. Quali casi? Quelli di covid, ovviamente.

Ed ecco che così entra in campo il grande tema della responsabilità: io non me la prendo, non ci penso nemmeno, io mi metto al sicuro e cancello tutto, oppure faccio firmare a tutti i miei clienti dei fogli che mi proteggono, che mi difendono e se qualcuno dei miei clienti si prende il covid, sono affaracci suoi, io non c’entrerò mai niente, perché lui ha firmato e io non sono responsabile per gli altri. 

Io non sono responsabile per gli altri. 


Questa dimensione di 
distanza e allontanamento dagli altri non è certo un prodotto della pandemia, ma un processo cominciato molti e molti anni fa, in un panorama in cui sono entrati a gamba tesa l’individualismo e la trasformazione delle famiglie in mono-nuclei, tutti cugini del tanto agognato agio.
Ed è con questi buchi, questi vuoti relazionali che si crea la probabilità.
L’incertezza totale, perché la mente non ha più appigli sicuri nelle altre persone, perché se tutti pensano di essere responsabili solo per se stessi, decade la responsabilità collettiva, civica, per cui il pensiero sociale si trasforma solo in massime di questo tipo.

“State a casa”
“Non uscite, perché volete vedere gli amici se potreste contagiarvi?” , “Guarda quello che si è abbassato la mascherina, guarda non se la ritira su, non capisco come si faccia ad essere così irresponsabili”.

“Probabilmente ci ammaleremo tutti”
“Probabilmente è tutto stato pianificato da qualcuno”
“Probabilmente è una manovra economica”

“Probabilmente al governo non sanno che pesci pigliare”

Come facciamo quindi ad essere sicuri di qualcosa? Come facciamo a vivere in un mondo così disordinato? Come faremo se abbiamo una incapacità di default a comprendere e applicare le nozioni della scienza statistica? Come facciamo a vivere se non sappiamo quale futuro ci aspetta?
 

Praticate la gentilezza

La soluzione, come sempre, non esiste. Non ci sono modi per risolvere la propria vita in un batter d’occhio e nemmeno la situazione attuale potrà risolversi nel giro di un anno, così come non si può far niente per far sì che tutti si mettano una mascherina, perché non siamo delle macchine. Possiamo tollerarla il più a lungo possibile, ma distrarci un attimo e abbassare la guardia sono accadimenti da accettare, negli altri e in noi stessi, perché insiti nella nostra natura.
Noi siamo fallibili. 

Quando accetteremo la nostra fallibilità, potremo anche intuire che il signore che si è spostato la mascherina lo ha fatto senza accorgersene e aspettare un secondo che se la ritiri su. Come al semaforo rosso che diventa verde. Invece di suonare subito il clacson, possiamo attendere.
Se nulla cambia, penso possa essere considerato dovere civico invitare il prossimo a rimettere la protezione, e con gentilezza è meglio. 

Soprattutto perché la rabbia è molto più contagiosa del COVID.

Articolo a cura di Silvia Tedone

Image by rawpixel.com

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