Al di là di quanto leggiamo sui giornali sulle “Great Resignation” stiamo sperimentando un po’ tutti nei nostri studi e nelle aziende la difficoltà di trovare personale che abbia ancora voglia di lavorare in attività cd. “impegnative”, sia in termini di ore lavorate sia in termini di fatica mentale e/o fisica.
Credo sia necessario fermarsi per una riflessione, perché è facile passare immediatamente al giudizio e dire che le persone non hanno più voglia di lavorare.
La vera riflessione da fare è su di noi e sulla nostra vita, su come abbiamo vissuto fino ad ora e su come vogliamo vivere da adesso in poi.
L’essere passati attraverso la pandemia avrebbe dovuto farci riflettere sulle cose importanti della vita e sul nostro non pensarci perché presi dagli ingranaggi del sistema.
È chiaro che questa riflessione può portare alcuni a rallentare e altri a continuare al ritmo di prima, perché non siamo tutti uguali e molti si trovano bene a lavorare molte ore al giorno e con ritmi incalzanti.
Ci sarà certamente chi lavora quanto e più di prima, per recuperare il tempo perduto.
Ma non per tutti è così, molti altri sono invece alla ricerca di ritmi di lavoro sostenibili, che consentano una vita extra-lavorativa soddisfacente e appagante, che dia la possibilità di seguire meglio i propri figli o di stare più vicino ai propri genitori o agli amici e compagni di vita.
C’è voglia di leggerezza e anche di cose semplici.
Spesso chi si riempie la vita di impegni, lavorativi e non, lo fa perché non ha la forza di fermarsi e di guardarsi, non sente neppure la necessità di recuperare.
È per questo motivo che non possiamo giudicare chi è alla ricerca di un lavoro che gli consenta di vivere pienamente la vita che vuole, etichettandolo come colui che non ha voglia di lavorare.
Magari, semplicemente, è una persona che ha chiaro cosa vuole dalla vita: semplicità e autenticità, poche cose chiare e non ambigue, un lavoro che gli lasci del tempo libero.
E sempre in questo contesto a mio parere va anche inserito il tema dell’equo compenso, non tanto sotto l’aspetto giuridico quanto sotto l’aspetto psicologico.
La riflessione in questo caso deve andare al denaro, che certamente non è tutto ma sicuramente aiuta a vivere bene.
Spesso chi lavora molto è perché ha paura di non guadagnare abbastanza, non per arricchirsi ma semplicemente per mantenersi.
Altrettanto spesso chi lavora così tanto non ha la consapevolezza del proprio valore e lavora gratuitamente o sotto costo, dimenticandosi che lavorando gratuitamente non solo perde un’entrata ma spende dei soldi, perché per ogni ora gratuita regalata i costi dello studio o i costi aziendali vengono comunque sostenuti.
Proprio per questo motivo è importante che il concetto di equo compenso, al di là dell’aspetto giuridico-normativo, sia un qualcosa dentro di noi, una modalità di pensiero che ci aiuta a riconoscere il nostro valore e a farlo riconoscere dagli altri.
L’equo compenso “interiorizzato” e messo in pratica ci consente di avere del tempo per noi e per i nostri cari, di lavorare con ritmi umani e non frustranti.
Ci consente di chiedere il giusto per il nostro lavoro, senza dover lavorare con ritmi insostenibili perché lavoriamo sottocosto senza margine.
Probabilmente chi sceglie un lavoro meno impegnativo ha più chiaro il proprio valore e meno paure e sensi di colpa.
Ha il concetto di equo compenso interiorizzato, perché sa cosa vuole anche se ai nostri occhi può apparire come una persona che non ha voglia di lavorare.
Articolo a cura di Emanuela Barreri, originariamente pubblicato il 15 Giugno 2022 su Ratio Quotidiano
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