Stiamo attraversando un momento lavorativo molto particolare.
In America – ma non solo – si parla di “Great Resignations”, cioè di grandi dimissioni, soprattutto nelle giovani generazioni.
Ci si sposta verso migliori condizioni di vita-lavoro, andando via da quei luoghi lavorativi in cui il clima è percepito come pesante e stressante.
C’è molta più attenzione a dare un senso alla propria vita e ci siamo accorti che il lavoro occupa tante ore del nostro tempo, per cui si dà più importanza allo stare bene nel luogo di lavoro rispetto all’entità dello stipendio o al prestigio della carriera.
La realizzazione di se stessi attraverso il lavoro comporta una riflessione allargata, che prende in considerazione la vita di ogni persona nella sua totalità, partendo dall’identità lavorativa ma allargando lo sguardo ad un benessere complessivo, che comprende sicuramente l’identità lavorativa ma anche la realizzazione come persona al di fuori del lavoro.
Diventano fondamentali il tempo libero a disposizione, la gradevolezza del luogo di lavoro, la soddisfazione di fare un lavoro in linea con le proprie aspirazioni ed attitudini mentre i concetti di sforzo, sacrificio, fatica, dedizione che hanno caratterizzato il mondo del lavoro degli ultimi anni non hanno più appeal e sono considerati obsoleti e superati.
Il focus si è spostato su che cosa conta veramente nella vita e non siamo più disposti ad accettare di sprecare il tempo del lavoro in fatiche emotive e logoranti, nell’attesa di un futuro di successo che non ci interessa più perché abbiamo capito, col Covid, che da un momento all’altro le cose possono cambiare e che i nostri programmi potrebbero non realizzarsi per cause a noi non imputabili.
In aggiunta, con lo smart working abbiamo compreso che riusciamo a lavorare anche da casa, riducendo i tempi di spostamento e – per chi c’è riuscito – ritagliando tempo prezioso per la nostra famiglia o i nostri hobby. Alcuni hanno anche compreso che è possibile lavorare in luoghi lontani, nella natura, con ritmi e velocità diverse, più “umane”.
Il principio dei giovani è “YOLO”, You Only Live Once, si vive una volta sola.
Sta cambiando la forma mentis e non si ha paura di cambiare la propria vita professionale in modo anche drastico, scegliendo soluzioni flessibili e gratificanti.
La domanda che tanti si stanno facendo è questa: ma il mio attuale lavoro mi fa stare bene oppure no?
Se la risposta è no ci si indirizza immediatamente verso un’altra esperienza professionale, che lasci tempo per le proprie passioni e che sia in linea con i propri valori ed interessi. Non importa se la nuova avventura professionale è nel campo per cui abbiamo studiato o relativa alle competenze che abbiamo acquisito, quello che conta è che ci faccia stare bene.
Questa nuova cultura del lavoro comporta la necessità di prestare maggiore attenzione alle persone e al clima lavorativo delle nostre aziende e dei nostri studi, partendo dal cogliere quei segnali di insofferenza e fatica che dipendenti e collaboratori ci mandano quotidianamente.
La maggior parte delle volte pensiamo che disagi e malesseri siano di natura personale, che non dipendano da noi o dal clima aziendale ma che siano legati alla singola persona. E magari è così, o magari non lo è.
O forse, molto più probabilmente, è un sommarsi di molteplici fattori legati alla persona, alla situazione del contesto lavorativo, al clima che si è generato, al nostro stile di conduzione e a tanto altro ancora.
La situazione di fatto è però che le persone stanno cambiando e vogliono stare bene, per cui diventa fondamentale prendere in considerazione questi segnali e non sottovalutarli.
E, tra l’altro, non farà male neppure a noi. Perché così potremo anche noi riflettere sul nostro modo di lavorare e cominciare a pensare come avere maggiori soddisfazioni, non solo lavorative.
Articolo a cura di Emanuela Barreri, originariamente pubblicato su Ratio Quotidiano il 16/03/2022
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